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IL NOBEL ALL'ECONOMISTA DELL'EQUITÀ

Laura Pennacchi

 Nei  momenti tragici che stiamo vivendo l'attribuzione del premio Nobel per l'economia a Joseph Stiglitz ha un significato enorme.

Si tratta, infatti, della personalità d'eccezione che, oltre a rivestire importanti ruoli pratici (è stato capo dei consiglieri economici del presidente Clinton e vicepresidente della Banca Mondiale), sul piano analitico ha criticato con più consequenzialità la potente ideologia liberista che per vent'anni ha dominato la scena mondiale sostenendo che l'intervento pubblico è sempre e comunque negativo per il benessere collettivo, mentre l'affidamento al mercato sarebbe sempre e comunque positivo.

Oggi le minacce che gravano sul mondo, e i rischi sottostanti di recessione, fanno riscoprire il valore dell'intervento pubblico. In un senso che. però rischia di avvalorare indirizzi da «economia di guerra», invece di rafforzare opzioni per una più giusta «società di pace».

Sotto questo profilo gli insegnamenti che possiamo trarre dall'elaborazione di Stiglitz - basata sull’" «economia dell'informazione» e sulle «imperfezioni informative» - sono di grande portata, a partire dalla dimostrazione che ogni volta che ci sono asimmetrie informative e/o mercati incompleti, cioè quasi sempre, allocazioni efficienti da parte del mercato non possono essere raggiunte senza intervento dello Stato.

La visione standard considera i fallimenti del mercato come delle eccezioni (eccezioni alla regola generale che le economie decentralizzate portano ad un'allocazione efficiente delle risorse. Il nuovo indirizzo analitico fa emergere esattamente il contrario: è solo in circostanze eccezionali che il mercato è efficiente. Ma problemi di incompletezza e di imperfezione informativa i riguardano il settore pubblico almeno tanto quanto il settore privato.

Dunque, la questione non è tanto di identificare i fallimenti dell'economia di mercato, essendo questi endemici, quanto di riconoscere quei fallimenti dell'economia di mercato per i quali interventi dello Stato consentono un miglioramento del benessere collettivo, non essendo affatto detto né che lo Stato sia esposto a minori fallimenti, né che per ogni fallimento del mercato la soluzione appropriata sia un intervento pubblico

Il punto cruciale diventa non scegliere tra «intervento pubblico» e «mercato», ma ricono­scere, tra le molte varianti dell'intervento pub­blico e le molte varianti del mercato, la combi­nazione insieme più erodente e più equa.

Negli ultimi anni Stiglitz ha esteso al mon­do globalizzato una domanda: se problemi di incompletezza e di imperfezione informativa riguardano tanto il settore privato quanto il settore pubblico, ciò rende più difficili, ma al tempo stesso più determinanti, analisi mag­giormente approfondite del ruolo e del funzio­namento sia dello Stato, sia del mercato. Il nuovo approccio, cioè, nella misura in cui fuoriesce da una visione ideologica e dello Sta­to e del mercato, rende più necessaria una «teoria dello Stato» superflua quando si accet­ta come indiscutibile il teorema che i mercati portano sempre ad allocazioni efficienti e nes­sun governo potrebbe migliorare le cose.

Un paradosso è che l'esigenza di una «teoria dello Stato» si manifesta proprio quando in tanti si sbracciano a decretare la fine dello Stato-Nazione. Ora, è indubbio lo scarto cre­scente tra Stato nazionale e dimensioni ottima­li dei mercati, ma è altrettanto innegabile che le nuove condizioni di competitività connesse alla globalizzazione, mentre depotenziano di strumenti e di (unzioni gli Stati nazionali, so­vraccaricano di responsabilità gli Stati naziona­li stessi e tale sovraccarico non trova ancóra un'adeguata tematizzazione, una «teoria» in grado di interpretarlo e di trattarlo. Stiglitz in una lecture appena uscita in anteprima mon­diale in Italia insiste nel definire il processo in atto come un processo ad hoc, di «global governance senza global government». Con ciò egli intende sottolineare le conseguenze della mancanza di istituzioni adeguate a gestire il processo di globalizzazione, anche in termini di ricaduta sugli Stati nazionali e di erraticità che tale «adhocrazia» ha su fenomeni quali deregolamentazioni, privatizzazioni, liberaliz­zazioni, ristrutturazioni, gioco dei mercati fi­nanziari e dei movimenti di capitale.

Così l'elaborazione è spinta ad arrivare al cuore dell'assetto della democrazia e delle sue imperfezioni. Stiglitz lo fa in un duplice senso. Il primo attiene alla effettività delle regole del­la democrazia, a partire dalla trasparenza e dalla corretta diffusione e circolazione delle informazioni, tanto più cruciali di fronte a fenomeni quali la stabilità o l'instabilità macro­economica a livello internazionale, per cui un grande ruolo giocano gli imponenti flussi di capitale. Ma l'assetto della democrazia pone in causa anche i principi della giustizia. Nessuno negherebbe che di fronte a una crisi economi­ca gravissima è prioritario salvare le banche, ma perché, nel caso della crisi del Sud-Est asiatico, si trovarono 150 miliardi di dollari per soccorrere le banche e non un miliardo per i sussidi alimentari ai disoccupati?

La riflessione di Stiglitz ci aiuta a cogliere come i due sensi siano strettamente collegati: affinchè una struttura di governo sia adeguata ad affrontare i problemi odierni, e quindi real­mente democratica, deve incorporare principi di giustizia; ma i principi di giustizia richiesti oggi possono essere raccolti e veicolati solo da strutture democratiche in grado di dare voce e rappresentanza, in misura eguale, a tutti gli interessi e valori in campo.

In l’Unità 11 Ottobre 2001