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In Il Riformista, 7 Novembre 2002

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SPECIALE
L'intervista in esclusiva a Tony Blair


1. Signor Blair, lei è uno dei principali sostenitori della necessità di modernizzare la sinistra. Basandosi sull’esperienza britannica, quali sono, o dovrebbero essere, le linee guida di una trasformazione così radicale?

Quel che dobbiamo fare è modellare le nostre politiche sui bisogni, le priorità e le ambizioni della gente che rappresentiamo. Questo non significa abbandonare i nostri valori tradizionali: i valori del centrosinistra – solidarietà, giustizia sociale, tolleranza, democrazia e internazionalismo – sono oggi più importanti e rilevanti che mai. Credo anche, a proposito, che questi valori siano condivisi dalla maggior parte delle persone per bene in Gran Bretagna, in Italia e nel resto dell’Europa. E’ necessario, tuttavia, innovare il modo con cui mettiamo in pratica questi principi, per riuscire a raggiungere l’obiettivo di garantire sicurezza e opportunità per tutti.

Visti cambiamenti radicali a cui è andato incontro il mondo negli ultimi cinquant’anni, dovrebbe essere ovvio che il modo in cui agiamo deve cambiare anch’esso, se vogliamo essere efficaci. La sinistra italiana se n’è accorta quando il Pci si trasformò nel Pds, e più tardi quando diede vita alla coalizione dell’Ulivo. Ecco, dobbiamo avere il coraggio di cambiare. Non mi nascondo la difficoltà della sfida, ma credo che la storia dimostri che il centrosinistra ha sempre ottenuto risultati migliori quando è stato audace.

Lasciate che faccia un esempio relativo alla riforma dei servizi pubblici, che in Gran Bretagna è la principale priorità del governo del Labour. Nel 1945 un grande governo laburista e riformatore affrontò l’immensa sfida dell’epoca costruendo il National Health Service (il Servizio Sanitario Nazionale) e il sistema di welfare. I servizi centralizzati e universalistici che ne nacquero, basati sui bisogni anziché sul censo, diedero tranquillità e opportunità, a dir poco, a milioni di persone. Questo resta il più importante risultato mai ottenuto dal nostro partito quand’è stato al governo.

Ma ciò che era giusto per il 1945 non necessariamente resta valido per il nuovo secolo. Così, mentre ovviamente i cittadini continuano a fare affidamento su un sistema sanitario pubblico e restano fedeli al principio che questo debba basarsi sui bisogni e non sul censo, oggi non sono più soddisfatti da un servizio standardizzato e indifferenziato. Vogliono servizi pubblici che si attaglino maggiormente ai loro bisogni di consumatori e cittadini; vogliono servizi di qualità, ovunque vivano, li vogliono accessibili, e vogliono avere una maggiore possibilità di scelta. Quanto agli operatori dei servizi, non vogliono che tutto ciò che fanno sia dettato centralmente, ma vogliono avere la libertà di innovare e di elevare gli standard offerti. Noi dobbiamo usare la loro esperienza, e fidarci delle loro capacità.

In sintesi, dobbiamo costruire sui nostri successi passati e rimodellare i nostri servizi pubblici di modo che vadano incontro ai nuovi bisogni e alle nuove ambizioni, e al tempo stesso continuare a garantire una copertura universale. Nel nostro sistema sanitario, per esempio, negli ultimi cinque anni abbiamo introdotto nei centri cittadini gli ambulatori privati dove si può andare senza appuntamento, una guardia medica telefonica attiva 24 ore su 24, e stiamo sperimentando nuovi sistemi di prenotazioni ospedaliere – tutti modi per mettere il paziente al centro del sistema. Alcune di queste innovazioni possono sembrare scontate in Italia, ma per la sanità britannica si è trattato di miglioramenti radicali.

2. Tra i punti più controversi di dibattito c’è la tematica del lavoro: se cioè la sinistra debba promuovere una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, o difendere – se non addirittura espandere – le grandi conquiste fatte in passato dalle socialdemocrazie in termini di tutela del posto di lavoro, di legislazione del lavoro e di potere sindacale. Quali politiche dovrebbe perseguire, a suo avviso, la nuova sinistra?

Non capisco bene dove stia la controversia. Non credo sia un gran risultato per la socialdemocrazia – o per chiunque altro – garantire alti tassi di disoccupazione e bassa crescita.

Il problema è trovare il giusto equilibrio fra la protezione di chi lavora, la creazione di posti di lavoro di qualità e ben pagati, e il dare alle persone la possibilità di occuparli con successo. Dopo tutto, ci sono poche ingiustizie sociali più gravi del negare a qualcuno un lavoro. Il modo migliore per distribuire la ricchezza, combattere l’esclusione sociale e accrescere l’autostima e il coinvolgimento nella società, è creare posti di lavoro. E’ per questo che l’impresa e la giustizia sociale sono state le forze trainanti del governo laburista in Gran Bretagna.

Peraltro, non possiamo neppure ignorare l’impatto della globalizzazione sulle nostre economie e sui nostri paesi. La globalizzazione è un fatto, non una scelta. Ma questo non significa che dobbiamo sposare politiche ultra-liberali o thatcheriane. La scelta è tra adagiarsi e lasciare la gente alla mercé dei potenti cambiamenti messi indotti dalla globalizzazione, come vorrebbe la destra, o aiutare e sostenere i nostri cittadini ad adattarsi ai cambiamenti e insieme a cogliere le opportunità che questi impongono.

Io credo che compito del centrosinistra sia sostenere le persone in una fase di reali incertezze, e aiutarle a trovare un lavoro soddisfacente. E questo, naturalmente, significa aiutare a creare le condizioni perché le aziende fioriscano e creino posti di lavoro, mentre un mercato del lavoro eccessivamente rigido può invece danneggiarle. Le pur difficili decisioni che abbiamo preso per garantire stabilità all’economia, hanno aiutato in Gran Bretagna la creazione di un milione di nuovi posti di lavoro dal 1997 a oggi. Accanto a ciò, però, abbiamo introdotto regole efficaci per garantire una concorrenza leale e tutelare lavoratori e consumatori.

Altro punto cruciale è mettere una maggiore enfasi sulla formazione scolastica e professionale. Introducendo l’aiuto personalizzato reso disponibile dal New Deal, per esempio, abbiamo ridotto del 75% la disoccupazione giovanile di lunga durata.

Infine, bisogna garantire una serie di standard minimi sul lavoro. A volte si dimentica che è stato questo governo, al termine di una campagna durata un secolo, a introdurre per la prima volta un salario minimo legale e miglioramenti nelle protezioni per i lavoratori dipendenti, compreso l’innalzamento del sussidio di maternità e il diritto alle ferie pagate – di nuovo, per la prima volta nella storia britannica. Abbiamo inoltre dato ai nostri sindacati nuovi diritti, a partire da quello al riconoscimento giuridico. Queste non sono azioni da governo neo-liberale e di destra.

Chi accusa di tradimento chiunque nel centrosinistra adotti politiche favorevoli al mercato, deve spiegare ai nostri elettori come loro e le loro famiglie possono trarre vantaggio da una disoccupazione alta. Non possiamo permetterci di restare prigionieri di idee vecchie, o di interessi che, da destra o da sinistra, si oppongano al cambiamento.

3. Alle elezioni del 2001 il Labour si presentò con un programma coraggioso che proponeva di alzare le tasse per finanziare la scuola e la sanità pubblica, mentre il resto del mondo si crogiolava nella speranza di ridurre la pressione fiscale. Il vostro era solo un tentativo di mitigare le conseguenze specifiche del thatcherismo, o espandere i servizi pubblici può diventare una delle caratteristiche politiche della nuova sinistra anche altrove?

Sotto la guida del New Labour la Gran Bretagna resta, in base agli standard europei, un paese a bassa imposizione fiscale. Perché noi crediamo che una tassazione bassa aiuti a generare crescita, lavoro e ricchezza.

Siamo altresì convinti, però, che i servizi pubblici siano vitali più che mai per raggiungere gli obiettivi del centrosinistra. E non c’è dubbio che per decenni ai servizi pubblici britannici siano stati negati gli investimenti necessari. Gli stessi elettori, in Gran Bretagna, lo hanno riconosciuto. Per questo erano pronti a sostenere un partito che prometteva investimenti nei servizi pubblici al posto di insostenibili riduzioni fiscali.

Tuttavia, era altrettanto importante che riuscissimo a dimostrare di saper gestire l’economia con competenza. Il risultato delle scelte ardue che abbiamo compiuto nei nostri primi anni al governo, scelte a volte impopolari a sinistra, è che l’inflazione, i tassi d’interesse e la disoccupazione sono più bassi che negli ultimi decenni. E questo ci ha consentito di disporre di maggiori risorse per migliorare i servizi pubblici, anziché dover fare i conti con bilanci in perdita.

L’ultimo punto fondamentale, però, è che l’elettorato deve potersi fidare del fatto che queste risorse aggiuntive siano utilizzate per migliorare i servizi pubblici dalle fondamenta. Per questo è essenziale che gli investimenti si accompagnino alle riforme. Se vogliamo trasformare i nostri servizi, le due cose devono andare insieme.

4. Da quando lei è al governo il coinvolgimento britannico in iniziative militari – dalle operazioni di polizia internazionale alle guerre umanitarie – è diventato più frequente. E’ solo il risultato della crescente instabilità internazionale, o una svolta di politica estera, segno di un una rinnovata dottrina internazionalista? E in questo secondo caso, come risponde a chi sottolinea come la cosiddetta comunità internazionale abbia la tendenza di scegliersi i nemici solo in aree vitali per gli interessi occidentali, mentre le atrocità che avvengono altrove (Rwanda, Myanmar…) non vengono mai affrontate?

E’ senz’altro vero che la comunità internazionale non ha agito con sufficiente decisione in Rwanda, e io stesso ho detto pubblicamente in più occasioni che spero sapremo agire diversamente se dovessimo trovarci di nuovo di fronte a una situazione di questa gravità. Ma la Gran Bretagna, per esempio, è intervenuta direttamente in Sierra Leone per sostenere il governo democraticamente eletto nel corso di una nuova, orribile guerra civile. Lo abbiamo fatto perché era giusto, non perché fosse un’area vitale per gli interessi occidentali.

Più in generale, credo che la spiegazione del maggior coinvolgimento al di fuori dei confini, non solo nostro ma di molte altre nazioni, stia nella maggior consapevolezza del fatto che il mondo è più interdipendente di quanto non lo sia mai stato in passato, e che l’instabilità o la fame in una parte del globo possono velocemente produrre conseguenze anche nei nostri stessi paesi. A modo loro, i terrificanti attentati terroristici dell’11 settembre negli Stati Uniti sono stati una conseguenza del precedente disimpegno del mondo verso l’Afghanistan. Quello stesso disimpegno aveva anche fatto sì che l’Afghanistan diventasse la principale fonte dell’inondazione di eroina in Gran Bretagna e nel resto d’Europa. Insomma, esito delle guerre civili o delle crisi umanitarie non sono solo la tremenda perdita di vite umane o le immani sofferenze della popolazione, ma anche l’enorme numero di profughi che attraversano le frontiere. Per cui farsi coinvolgere nel tentativo di porre una soluzione a queste crisi non è solo giusto in linea di principio, ma è anche nel nostro interesse.

5. Spesso il governo britannico è stato al centro delle critiche per la sua fedeltà agli Stati Uniti. Ritiene che anche gli altri paesi europei debbano partecipare maggiormente che in passato agli interventi militari all’estero?


Non credo certo di dovermi scusare del fatto che la Gran Bretagna sia considerata una buona amica degli Stati Uniti. Un forte legame tra i nostri due paesi è nell’interesse di entrambi, ed è anche, credo, nell’interesse dell’Europa e della comunità internazionale più vasta. I valori fondamentali dell’America – democrazia, libertà, tolleranza e giustizia – sono comuni anche alla Gran Bretagna e all’Europa, e attorno a essi stiamo costruendo una partnership globale. Ragion per cui credo che la nostra amicizia con l’America sia un elemento di forza, come lo è la nostra appartenenza all’Unione europea.

A questo proposito credo inoltre che ci sia una generale consapevolezza della necessità dei paesi europei di modernizzare e migliorare i propri strumenti di difesa. In questo modo possiamo assicurare un più forte contributo europeo alla gestione delle situazioni di crisi, all’interno della Nato come nelle situazioni dove la Nato non è coinvolta.

6. Spagna, Italia, Austria… Più recentemente Danimarca, Francia e Olanda. Che insegnamento deve trarre la sinistra europea dall’imponente ritorno sulla scena dei partiti conservatori?


E’ curioso: appena un paio di anni fa nelle interviste mi toccava rispondere a domande sul motivo dello straordinario ascendente del centrosinistra in Europa… Peraltro non dobbiamo dimenticare che il cancelliere Schroeder ha appena ottenuto la rielezione in Germania, così come Goran Persson in Svezia, e che Olanda e Austria stanno per tornare a votare – due paesi dove i populisti di destra hanno mostrato il loro vero volto. Insomma, credo sia necessaria una certa cautela nel cercare insegnamenti di carattere generale da quelli che restano specifici panorami elettorali di ciascun paese.

C’è però, forse, una lezione che riguarda tutti i partiti di centro – che siano o meno al governo – ed è che non dobbiamo mai dare per scontato l’elettorato, né aver paura di cambiare. Credo sia anche folle da parte nostra evitare di prendere in considerazione i timori collettivi nei confronti dei comportamenti anti-sociali, della criminalità o dei profughi. La sfida sta proprio nella capacità di modellare politiche che siano coerenti con i nostri valori e che insieme siano in grando di affrontare queste paure.

7. Lei ha personalmente incontrato, in più di una occasione, l’uomo che i militanti della sinistra italiana detestano con maggior trasporto: Silvio Berlusconi. Che opinione si è fatto dell’uomo e della sua leadership politica?

Come primo ministro del Regno Unito è previsto che io lavori costruttivamente con i rappresentanti eletti di tutti i nostri partner europei, e questo è esattamente quel che faccio con Berlusconi. Spetta agli italiani, non a me, scegliersi il primo ministro. Comunque io con lui ho un buon rapporto e lavoriamo assieme, per esempio, sulle politiche che rimuovano le barriere alla competizione, all’innovazione e all’occupazione.