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Nel centenario di Popper, la recensione di Bobbio alla «società aperta»
Mostro totalitario, tu sonnecchi in noi
di Norberto Bobbio

 

da La Stampa - 17 luglio 2002


KARL Raimund Popper ci parla in un recente libro, in due grossi volumi, della «società aperta e dei suoi nemici» (The Open Society and its Enemies, London 1945): la società aperta è quella dove ogni individuo assume una responsabilità personale e dove la molla della vita sociale è l'iniziativa morale e singolare, mentre la società chiusa si fonda essenzialmente sulla rigidità dei costumi appoggiati ad un'autorità d'ordine religioso. La prima è razionale e critica, continuamente in progresso; la seconda irrazionale e magica, staticamente assopita nella ripetizione di formule consumate.

Il passaggio dalla società chiusa alla società aperta è anche per il Popper, come per il Bergson, il passaggio dal tribalismo all'umanitarismo; ma al Popper non piace l'intrusione di quell'intuizione mistica che nel Bergson apre la società chiusa e la dissolve. Il misticismo, anch'esso, è, per il Popper, un ingrediente della società chiusa: o se mai una reazione alla minacciata decadenza della società chiusa, e quindi una protesta contro la società aperta che tende a distruggere il sogno di un ritorno al paradiso perduto della tribù. Non sul misticismo la società aperta si costruisce; ma sull'intelligenza degli uomini che hanno acquistato consapevolezza del potere critico della propria ragione e l'esercitano per svelare l'inganno e l'inconsistenza dei miti, per distruggere l'autorità e il terrore delle superstizioni selvagge.

Di nemici, secondo il Popper, la società aperta ne ha conosciuti in ogni epoca molti, anche nelle più gloriose età del pensiero. Nell'antichità sopra ogni altro Platone, proprio il divino Platone, che tradisce il messaggio umano di Socrate, e vagheggia il sogno impossibile di ricostruire, idealizzandolo, integro immutabile ed immobile, il paradiso perduto della società chiusa, arrestando in un momento del tempo, per l'eternità, il moto del progresso umano verso le libere istituzioni. Nei tempi moderni, Hegel, apologeta e teorico dello Stato-tribù, e il suo discepolo, falso profeta (se pure assai più acuto e intelligente indagatore dei fatti sociali) Marx. Smascherare questi nemici della società aperta e quindi dell'umanità è, secondo il Popper, compito della filosofia razionalistica e critica.

Dovere urgente e degno dell'uomo moderno è quello di mostrare che il ritorno ad ogni forma di tribalismo eroico non è un ritorno allo stato idillico di natura, ma alla belluinità primitiva. Il paradiso per l'uomo, da quando egli ha mangiato il frutto dell'albero della conoscenza, è definitivamente perduto: «Se noi sogniamo» - egli dice - «di ritornare alla nostra infanzia, se ci lasciamo tentare di fare assegnamento sugli altri e di essere in questo modo felici, se ci sottraiamo al dovere di portare la nostra croce, la croce dell'umanità, della ragione, della responsabilità, se perdiamo il coraggio e ci ritiriamo dalla lotta, allora dobbiamo renderci chiaro conto, spregiudicatamente, di quel che ci spetta: noi possiamo tornare allo stato belluino. Se invece desideriamo restare uomini non c'è che una sola via, quella che conduce alla società aperta».

Quanto all'analisi storica del Popper, non è il caso qui di indagare se sia esatta o non sia viziata dall'amore della tesi. Ma un modo così sincero ed ardito di denunciare l'eterna tentazione che in ogni società umana fatalmente emerge di ritornare al tribalismo, merita pure qualche commento. Non foss'altro perché questo ritorno al tribalismo è il più incisivo e meno astratto criterio di spiegare il fenomeno dello Stato totalitario, in qualunque paese e con qualunque veste ideologica si sia presentato, e quindi anche, dato che la storia non conosce altri valori che il «civile» e il «barbaro», di condannarlo senza ricorrere a valutazioni d'ordine trascendente, a immagini apocalittiche, a visioni provvidenziali.

Lo Stato totalitario, come oggi, dopo l'evento, appare sempre più evidente, e come, prima dell'evento, aveva messo in rilievo con una certa baldanzosa facilità Walter Lippmann in un noto libro, ora conosciuto anche da noi, è essenzialmente un'organizzazione militare e guerriera, che non si giustificherebbe, anzi sembrerebbe addirittura mostruoso, se il suo scopo ultimo non fosse rappresentato dalla preparazione e della condotta della guerra. Esso affonda le sue radici in quegli stessi motivi psichici e sociali che hanno presieduto al sorgere delle organizzazioni statali primitive, nate appunto per la difesa del gruppo dalla permanente insidia degli altri gruppi. Per questo lo Stato totalitario è una società chiusa: alla sua base è un gruppo che si crede isolato o si isola volontariamente, e concepisce tutta la vita sociale in funzione della difesa o dell'attacco nei confronti degli altri gruppi. (...)

Ma la società chiusa non è morta, sol perché siano caduti tre o quattro Stati totalitari. Essa è una tentazione perenne di quell'uomo primitivo che sonnecchia in ciascuno di noi e si desta e si scatena nei momenti di sconquasso sociale; è la tentazione di ignorare che gli altri non sono soltanto i miei figli, quelli della mia terra e della mia razza, ma tutti gli uomini indistintamente; di far tacere l'appello della nostra coscienza morale, che è tale in quanto è consapevolezza di una legge universale che unisce tutti gli uomini al di sopra delle differenze sociali; di far trionfare sulla evidenza della ragione l'oscurità dell'istinto, sull'intelligenza moderatrice la passione sconvolgitrice, sul sapere scientifico le più screditate superstizioni, sull'obbedienza ai principi di un'educazione civile l'abbandono al furore cieco del fanatismo. Ogni aggruppamento cela in sé questa tentazione di chiudersi nel cerchio magico della sua autosufficienza: ed ecco che dalla classe sorge il classismo, dalla nazione il nazionalismo, dalla razza il razzismo.

Il popolo che in questa materia è senza peccato scagli la prima pietra: forse che i rappresentanti delle grandi democrazie non ci appaiono oggi anch'essi come potenti, smisuratamente potenti, capi-tribù che si rinchiudono gli uni di fronte agli altri in un atteggiamento di diffidenza ostile e perversa? Lo spirito che ha determinato la politica delle zone d'influenza è lo spirito della società chiusa; non importa che i confini della tribù si allarghino sino ad abbracciare quasi mezzo mondo: lo spirito tribale rimane. E con la seduzione della tribù, che i demagoghi delle piazze, i retori della cattedra e tutti i più cinici e sciocchi mistificatori di ideali ricoprono sotto il nome pomposo di amore di patria, va di pari passo l'organizzazione della società non per la pace ma per la guerra, non per la felicità dei singoli, ma per la potenza del gruppo, non per lo sviluppo dell'anima ma per la vigoria delle membra, non per la libertà delle persone, ma per la schiavitù del gregge o dell'alveare.

Dovunque questa seduzione si estende, la democrazia è destinata a ritirarsi e a decadere. La democrazia, o è la società aperta in contrapposto alla società chiusa, o non è nulla, un inganno di più. Quella democrazia alla quale hanno guardato, come a meta che meritasse il sacrificio dei migliori, tutti i movimenti di liberazione europei, non era stata intesa come una modificazione puramente formale delle leggi costituzionali di uno Stato: o era veramente la rottura della società chiusa, e l'instaurazione della società aperta, o era un falso idolo che non meritava né incensi né vittime. Purtroppo una concezione meramente formale e strumentale della democrazia prevale ancora oggi nel mondo; e in tal modo si disimpara a leggere il significato profondo di quelle strutture o di quegli accorgimenti giuridici che si dicono democratici.

Dietro al suffragio universale, alla garanzia dei diritti dell'individuo, al controllo dei poteri pubblici, all'autonomia degli enti locali, al tentativo di organizzazione internazionale degli Stati, sta, ben visibile a chi non vuole chiudere gli occhi, la convinzione che l'uomo non è mezzo ma fine, e che quindi una società è tanto più alta e più civile quanto più accresce e rinvigorisce, e non avvilisce e mortifica, il senso della responsabilità individuale. In altre parole: dietro alla democrazia come ordinamento giuridico politico e sociale, sta la società aperta come aspirazione a quella società che rompa lo spirito esclusivistico di ciascun gruppo, e tenda a far emergere di sotto alle caligini delle superstizioni sociali, l'uomo, il singolo, la persona nella sua dignità e inviolabilità.

Contro la società chiusa, cioè contro la morale della potenza, l'autarchia economica, il monismo giuridico, la religione magica, la democrazia si ispira ad una morale fondata sulla responsabilità individuale, rivendica un'economia antimonopolistica, avversa ai privilegi dei gruppi, ha bisogno di una struttura non monistica ma pluralistica del diritto, esige una religiosità interiore che sgorghi dall'intimità della coscienza. Una democrazia che non sia il rivestimento formale di una società aperta è una forma senza contenuto, è una falsa democrazia, una democrazia ingannevole e insincera.