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COME USCIRE DALLA TRAPPOLA DELL'ARTICOLO 18
GINO GIUGNI

 

da Repubblica - 2 aprile 2002


SI È posto al centro della polemica politica, intorno ad esso è addirittura fiorita una vera e propria simbologia. Vale quindi la pena di riferire i precedenti ormai remoti, invero, di questo contestatissimo articolo 18 che fa corpo con lo statuto dei lavoratori. A dir la verità lo statuto è molto più ampio, ma l´articolo 18 ne costituisce uno degli elementi più qualificanti.
Come nacque lo statuto molti non lo ricordano, ma esso fu voluto da Pietro Nenni come effetto di una lontana polemica che vide al centro Di Vittorio, che nel congresso della Cgil, se non erro nel 1945, aveva posto, anche se in maniera molto generica, l´idea di uno statuto dei diritti dei lavoratori.
Di Vittorio si riferiva al tema delle discriminazioni e di tutti quegli analoghi problemi che all´epoca erano molto acuti e molto sentiti nella classe operaia, e costituivano effettivamente un vero e proprio attacco alla democrazia nel momento in cui, di fatto, dominava una soluzione centrista impersonata in maniera eccessiva dall´allora famoso ministro dell´Interno Mario Scelba.

SEGUE A PAGINA 15

Ecco come possiamo uscire dalla trappola dell´articolo 18
Che sia necessario qualche ritocco alle vecchie norme non c´è dubbio, ma né il governo né la Confindustria possono dimostrare che la riforma aumenterà l´occupazione
Lo statuto dei lavoratori fu voluto da Pietro Nenni e varato nel 1966, ma solo nel 1970 fu introdotto l´obbligo di reintegrazione in assenza di giusta causa

Questa è l´origine dell´articolo 18. I suoi successivi sviluppi, che ne arricchiscono molto il contenuto rispetto alla modesta enunciazione formulata a suo tempo da Di Vittorio, sono costituiti da una vera e propria legge introdotta nel 1966 dall´allora governo di centro sinistra. Essa presentava limiti piuttosto cospicui rispetto al successivo statuto dei diritti dei lavoratori del 1970. E´ vero che si chiamò sin dall´inizio con lo stesso nome, ma il breve tempo intercorso tra il primo ed il secondo aveva segnato una presa di distanza notevole.
Lo statuto dei diritti dei lavoratori fu fortemente voluto da Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro, il quale, peraltro già in gravi condizioni fisiche, morì alla fine degli anni ´60 e dunque prima di vederne la conclusione. La sua opera fu portata a termine dal democristiano Carlo Donat Cattin.
La legge Nenni, chiamiamola così, riguardava solo il licenziamento e prevedeva soltanto il risarcimento nella forma di alcune mensilità di retribuzione, ma è nello statuto di Brodolini, e poi di Donat Cattin, che venne introdotto l´obbligo della reintegrazione nel caso di mancanza di giusta causa (il famoso articolo 18 di cui oggi si discute).
Poiché svolgevo le funzioni di capo dell´Ufficio legislativo del ministero del Lavoro, nominato dal socialista Brodolini, ebbi la ventura di occuparmi di questa legge in ragione delle mie conoscenze tecniche, ma fu di Brodoloni, e poi di Donat Cattin, la volontà politca.
Accanto all´articolo 18, lo statuto introdusse un ulteriore fattore di grande importanza, costituito da un´altra norma molto particolare, l´ancor più famoso articolo 28, che introdusse un mezzo innovativo di tutela, il quale valse, tra l´altro, a produrre nuovi e positivi effetti sulla procedura civile, e che influenzò molto ampiamente anche il contenzioso nascente dall´articolo 18. Infatti l´articolo 28, dando luogo ad un autentico rinnovamento della procedura civile, regolò una forma di procedimento d´urgenza, che permise di scavalcare i processi civili in materia di lavoro, fino ad allora operanti sulla base di vecchie norme che prevedevano la prevalenza del procedimento scritto su quello orale.
Il nuovo statuto ebbe all´inizio una vita travagliata, con momenti di acuta tensione soprattutto nel corso degli anni '70. Poi vi fu una lunga fase di assestamento, che forse non avrebbe generato ulteriori problemi di attuazione, se non fossero emersi nel frattempo richieste di riforma, ed, in particolare, il mutamento più profondo del cambio di maggioranza del governo. E qui siamo al giorno d´oggi.
Che l´articolo 18 fosse passibile di un "ritocco" l´ho sempre affermato, se non altro per l´ovvia ragione che nulla, neanche le norme di legge, devono ritenersi immutabili, meno che mai una legge così legata all´influenza dell´attualità. Tuttavia la riforma non può essere giustificata da ragioni connesse agli effetti positivi che la modifica di questa norma produrrebbe sull´occupazione. Infatti, nonostante la diversa opinione della Confindustria e del governo, l´articolo 18 non ostacola una situazione di quasi piena occupazione al nord e non impedisce una crescita di posti di lavoro a tempo indeterminato in tutto il paese, come dimostrano i recentissimi dati Istat del gennaio 2002.
Oggi dopo trent´anni di attuazione, e lasciando da parte le ipotesi dirompenti dovute alle parole improvvide di alcuni ministri, i tempi apparirebbero maturi per alcune modifiche, non però quelle che hanno generato violente reazioni così nel mondo politico come anche in quello sindacale. Da questo punto di vista, occorre affermare una volta per tutte che l´articolo 18, stretto in un comune destino con l´articolo 28, riguardante la soppressione dei comportamenti antisindacali, potrà e dovrà essere "ritoccato" ma assolutamente non cancellato.
Che cosa fare di questo tormentato pezzo dello statuto? Ad avviso di chi scrive, esso non solo va mantenuto, ma deve esser potenziato nei suoi effetti, rendendolo, per quanto possibile, accettabile sia dai lavoratori che dagli imprenditori. A questo riguardo, esso presenta due punti deboli: l´uno, che è quasi un luogo comune, è l´eccessiva durata dei procedimenti, l´altro, ed è un aspetto della stessa medaglia, il fatto che, se per i lavoratori la perdita del posto può equivalere ad una tragedia umana, dall´altra parte l´imprenditore, specie se di piccole dimensioni, può trovarsi di fronte ad un danno anche spropositato e, in termini economici, a volte persino rovinoso. In queste settimane molte voci si sono levate e non per sopprimere l´articolo 18, ma per attenuarne almeno l´operatività.
Vari e diversi tentativi di correzione emergono, concernenti l´entità dell´indennità sostitutiva: ma sono tutte mezze misure. Il problema riguarda il fatto in sé. E cioè il se del licenziamento, se sia ritenuto ammissibile o meno.
In ordine a questo, la soluzione più ragionevole apparirebbe quella di operare su due lati: adottare un sistema processuale modellato in qualche misura ad imitazione del famigerato articolo 28, e cioè un procedimento ultra rapido anticipatorio della causa e del suo esito, che del resto aveva già dato un buon risultato dopo che si era attenuata l´ondata degli anni '70, l´epoca dei "pretori d´assalto", ormai scomparsi. Tutto questo resta nell´ambito della procedura civile, in questo caso d´urgenza.
Ma un passo ulteriore consisterebbe nella riduzione del ricorso dinanzi al giudice, e della sua sostituzione con l´arbitrato volontario, già del resto sperimentato, sia pure con estrema prudenza, nel 1947 con accordi sindacali (auspici Di Vittorio e Angelo Costa). Le due soluzioni non sono sostitutive, ma affiancate una all´altra. In tal modo si darebbe una scrollata al regime di licenziamento, ma allo stesso tempo si realizzerebbe una efficace azione di rottura, rinnovando la procedura civile. L´arbitrato, tuttavia, per poter decollare, dovrebbe vedere la partecipazione di tecnici del diritto e non dovrebbe avere costi eccessivi, che dovrebbero essere in larga parte sostenuti dallo stato e, in misura molto inferiore, dal datore di lavoro.
L´uno e l´altro sistema potrebbero dare una spinta definitiva alla gestione di un problema certamente serio, ma anche ingigantito dalle polemiche in corso.