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Tfr, libertà di scelta

Il 2007 sarà l'anno delle grandi scelte in campo previdenziale. Il tema ritorna di attualità sul piano politico generale, visto che si è riaperta la discussione sulle riforme e sull'aggiornamento della legge Dini, ma anche sul piano personale per milioni di lavoratori. Siamo chiamati a scegliere

di Paolo Andruccioli

Dal primo gennaio sono scattati i sei mesi di tempo per decidere che cosa fare del Tfr maturando (nell’articolo spiegheremo il concetto). Con la regola del silenzio-assenso circa undici milioni di lavoratori dei settori privati sono chiamati a decidere sul loro destino previdenziale. Con questo articolo ci proponiamo di spiegare nel dettaglio le regole che presiedono alla scelta e di introdurre i primi elementi di conoscenza sul funzionamento dei fondi pensione, che sono stati pensati a suo tempo - negli anni novanta - per integrare le pensioni pubbliche. Prima di entrare nel merito delle due questioni (regole e funzionamento dei fondi pensione) è bene chiarire un punto: se inizialmente si sceglierà di non destinare il proprio Tfr ai fondi pensione, avremo comunque la possibilità di ripensarci e cambiare idea in un secondo tempo. È arrivato quindi il momento di informarsi bene, discutere con i propri rappresentanti sindacali, documentarsi per poi scegliere con la massima serenità, ma anche con la massima partecipazione e convinzione. I sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil hanno ottenuto una prima vittoria, all’epoca del governo di Berlusconi, cancellando la regola del trasferimento obbligatorio del Tfr ai fondi pensione, così come era stato pensato dall’ex ministro del Lavoro, Roberto Maroni. Con l’attuale regola del silenzio-assenso ci possono essere però due diversi atteggiamenti da parte del lavoratore: un atteggiamento attivo o un atteggiamento passivo (silenzio). La Cgil privilegia la massima partecipazione del lavoratore e invita quindi a una scelta esplicita sul Tfr, anche perché con un tema così importante per il futuro di tutti noi la scelta attiva è sicuramente la più efficace e anche la più logica. Vediamo dunque di che si tratta.


Sei mesi per decidere

Secondo le norme approvate dal governo prima della fine dell’anno (tra il decreto legge di novembre e il varo della legge finanziaria per il 2007), ci sono sei mesi di tempo per decidere cosa fare del Tfr, trattamento di fine rapporto, meglio noto come liquidazione. Il Tfr è un accantonamento che si calcola sommando le quote accumulate dividendo per 13,5 la retribuzione dell’anno e rivalutando ogni anno le quote passate con un tasso pari a 1,5% più il 75% del tasso di inflazione. Si tratta quindi di una somma “certa”, regolata dalla legge e rivalutata di poco ma a un valore definito. Il Tfr è una parte della retribuzione e non è uno strumento previdenziale, anche se negli anni ha assunto anche una funzione di cuscinetto o ammortizzatore sociale, visto che la legge prevede la possibilità di chiedere anticipi per ragioni di salute, familiari o per acquisto dell’abitazione. Ma con le grandi riforme degli anni novanta e in particolare con la legge Dini, il Tfr ha assunto anche una nuova funzione in campo previdenziale visto che si è cominciato a considerarlo una delle possibili fonti dell’accantonamento per la previdenza complementare. Nello stesso tempo però le imprese hanno utilizzato il Tfr come fonte del finanziamento per le attività imprenditoriali. Hanno utilizzato il Tfr del lavoratore come se fosse un prestito. Con quest’ultima riforma della previdenza complementare il legislatore ha individuato il Tfr “maturando”, ovvero quello che si formerà dal primo gennaio 2007 in poi (e non quello che abbiamo maturato fino a dicembre del 2006), come fonte primaria del finanziamento dei fondi pensione per tutti quei lavoratori che ancora non hanno aderito a una forma di previdenza complementare, oppure che vogliono incrementare i contributi per quelle già esistenti. Per questo si dovrà decidere se mantenere il Tfr presso il proprio datore di lavoro, oppure se destinarlo a un fondo pensione. I sei mesi di tempo per la “grande scelta” sono scattati dal primo gennaio e si concluderanno il 30 giugno prossimo. O scatteranno dalla data dell’assunzione, per tutti coloro che saranno assunti dopo il primo gennaio 2007.


Ecco chi sceglie: quelli assunti prima del ‘93

Per quanto riguarda i lavoratori dei settori privati, le differenze previste dalle norme sono dovute all’età anagrafica e contributiva. La prima grande distinzione riguarda la data di assunzione. La seconda sottodistinzione riguarda l’essere o meno già iscritti a una forma di previdenza complementare, oltre a una forma obbligatoria pubblica. La prima categoria riguarda quindi tutti i lavoratori che sono stati assunti prima del 28 aprile del 1993. Ai lavoratori che sono stati assunti prima del 28 aprile 1993 e che quindi da quella data sono iscritti a una forma di previdenza obbligatoria, verrà chiesto se sono d’accordo a trasferire il loro Tfr maturando. A differenza di quelli che sono stati assunti dopo quella data, i lavoratori di questa prima “fascia” hanno la possibilità di destinare ai fondi pensione solo una partedel Tfr maturando, mentre gli altri che decideranno per i fondi pensione dovranno trasferire tutto l’ammontare del Tfr che si maturerà. E se tra questi lavoratori assunti prima dell’aprile 1993 dal punto di vista previdenziale ce ne sono di già iscritti anche a una forma di previdenza complementare, allora essi avranno la possibilità di confermare la scelta per quel fondo pensione, mantenendo la stessa quota di contribuzione, oppure di variarla. Versando la parte residua del Tfr.


Ecco chi sceglie: gli assunti dopo l’aprile del ’93

Per i lavoratori assunti dopo la data “spartiacque”, la scelta sarà un po’ diversa. Dovranno infatti decidere che cosa fare di tutto il Tfr maturando (e non solo di una parte come può succedere come abbiamo visto per i loro colleghi di lavoro assunti prima del ‘93). Questa seconda categoria di lavoratori deve scegliere quindi se rinunciare a tutto il Tfr che maturerà dal primo gennaio 2007 in poi per trasferirlo in un fondo di previdenza complementare, oppure tenere in azienda la liquidazione che rimarrà così a disposizione del datore di lavoro, ma solo nel caso in cui l’azienda ha meno di 50 addetti (ci torneremo meglio dopo). Per tutte le aziende con almeno 50 addetti, il Tfr che non viene destinato dal lavoratore a una forma specifica di previdenza complementare, non rimarrà a disposizione del datore di lavoro, ma dovrà essere trasferito alla Tesoreria di Stato che a sua volta lo affiderà all’Inps per la gestione. I capitali accumulati da questo trasferimento all’Inps saranno utilizzati dallo Stato per investimenti in opere pubbliche. Al lavoratore rimangono attribuiti comunque tutti i diritti oggi vigenti per il Tfr. Se un lavoratore vorrà chiedere per esempio un anticipo sulla sua liquidazione per ragioni sanitarie, familiari o magari per l’acquisto dell’abitazione, potrà farlo secondo le norme attualmente vigenti. E si dovrà rivolgere sempre al datore di lavoro anche se quest’ultimo avrà trasferito il Tfr all’Inps o al fondo pensione secondo l’indicazione del lavoratore stesso. Le lavoratrici e i lavoratori devono anche sapere che la loro scelta dovrà essere fatta con precise modalità. Secondo le norme più recenti varate dal governo, la scelta potrà essere esplicita o tacita (silenzio-assenso), ma in ogni caso ci vuole l’apposito moduloda indirizzare al datore di lavoro per esplicitare le intenzioni dei lavoratori e delle lavoratrici a proposito della previdenza complementare. Se si vuole investire il Tfr in un fondo pensione si dovranno indicare nel modulo i termini del fondo che si sceglie. In caso di diniego, si dovrà comunicare al datore di lavoro la volontà di tenere il Tfr presso il datore di lavoro. Il tutto entro la scadenza del 30 giugno 2007. Un mese prima dalla “scadenza” dei sei mesi, il datore di lavoro è tenuto comunque ad avvisare i suoi dipendenti che il tempo sta appunto per scadere. Anche questa comunicazione dovrà avvenire in forma scritta.


Ecco chi sceglie: quelli che stanno zitti

Come abbiamo visto nel corso dei sei mesi, il lavoratore o la lavoratrice hanno la possibilità di scegliere sia in modo esplicito (il modulo al datore di lavoro) sia in modo tacito. In questo secondo caso si possono verificare varie ipotesi a seconda delle “categorie” di lavoratori interessati. Se si tratta di un lavoratore che è stato assunto prima del 28 aprile ’93 e che alla data del primo gennaio 2007 risulta iscritto/a già a una forma di previdenza complementare, nel caso in cui non dica nulladurante i sei mesi, alla scadenza del periodo il datore di lavoro provvederà a trasferire il residuo del Tfr maturando al fondo pensione a cui è già iscritto. Se invece il lavoratore che durante i sei mesi non dice nulla è stato assunto prima del 28 aprile ’93, ma alla data del primo gennaio 2007 non risulta iscritto a nessuna forma di previdenza complementare, allora alla fine del periodo, il suo datore di lavoro trasferirà l’intero Tfr maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi e contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un diverso accordo che ne prevede comunque la destinazione a una forma collettiva (es. fondi negoziali, fondi aperti ad adesione collettiva). In presenza di più forme pensionistiche collettive applicabili, il Tfr maturando sarà trasferito alla forma pensionistica negoziale alla quale hanno aderito il maggior numero di lavoratori. Nel caso in cui non esistano per questo lavoratore/lavoratrice forme di previdenza complementare collettiva già istituite, allora il datore di lavoro provvederà a trasferire il Tfr maturando (sempre nel caso di silenzio del lavoratore) al fondo residuale Inps, che sarà gestito come tutte le altre forme di previdenza complementare. Infine, il percorso appena descritto vale anche per l’intero Tfr maturando di quei lavoratori che durante i sei mesi non dicono nulla, che sono stati comunque assunti dopo il 28 aprile 1993 e che non sono iscritti a nessuna forma di previdenza complementare.


Ecco chi sceglie: meglio decidere (anzi scrivere)
Come abbiamo già detto sopra, la Cgil invita i lavoratori a una scelta esplicita e dunque attiva. Le regole stabilite dal governo prevedono la possibilità di comunicare la propria scelta. Ogni comunicazione – sia da parte del lavoratore, sia da parte del datore di lavoro – dovrà avvenire in forma scritta utilizzando l’apposita modulistica. Si possono verificare quindi vari casi, a seconda della dimensione delle aziende. Se un lavoratore fa sapere che vuole mantenere il suo Tfr in azienda, questo rimarrà affettivamente nelle casse della società solo quando ci sono meno di 50 addetti. Per le aziende dai 50 in su, se il lavoratore o la lavoratrice non opta per il fondo pensione, il Tfr andrà alla Tesoreria di Stato, ma sarà gestito dall’Inps. Rimangano però valide tutte le norme relative al Tfr e in caso di richiesta di anticipi il lavoratore dovrà comunque sempre rivolgersi all’azienda. L’altra scelta esplicita è ovviamente quella relativa al fondo pensione. In questo caso il lavoratore ha la possibilità di usufruire della parte di contribuzione del datore di lavoro per incrementare il fondo pensione (oltre che delle agevolazioni fiscali), cose che perderebbe nel caso in cui decidesse di mantenere il Tfr in azienda. Ma vediamo allora come si costruisce la previdenza complementare.


Che cos’è un fondo pensione

Spiegate sommariamente le regole che presiederanno alla scelta dei lavoratori, cerchiamo di capire a questo punto il tema centrale, ovvero il funzionamento di un fondo pensione. Prima di tutto c’è da dire che secondo le norme varate con la legge istitutiva dei fondi pensione del 1993, la previdenza complementare può essere determinata da tre strumenti diversi: il fondo pensione negoziale (o di categoria), il fondo pensione aperto che può essere ad adesione individuale o collettiva e le polizze individuali (Pip o Fip). In genere il fondo pensione negoziale, previsto appunto dalla legge del ’93, viene istituito dalle parti con un accordo come forma di previdenza integrativa destinata solo ai lavoratori di quella singola categoria (da qui il termine fondo negoziale). Le parti istitutive del fondo negoziale stabiliscono le modalità di adesione e si incaricano di organizzare le gare per l’attribuzione delle risorse raccolte dai lavoratori a un gestore esterno. Per legge, infatti, le funzioni devono essere rigidamente distinte e separate: il fondo (con il suo consiglio di amministrazione) decide le linee orientative (il tipo di investimenti) e si occupa del controllo sulla gestione. Il gestore finanziario (che in genere è una Sgr, società di gestione del risparmio) si occupa di attuare le scelte di investimento e di valorizzare il portafoglio finanziario degli associati al fondo. Infine le risorse sono depositate e gestite da una banca depositaria. C’è dunque una tripartizione del poteri che è stata pensata dal legislatore per evitare il più possibile i conflitti di interesse e assicurare un funzionamento trasparente e sicuro del fondo pensione, che per sua missione, pur utilizzando strumenti finanziari, deve avere carattere di prudente e corretta gestione. A sua volta il fondo pensione (come soggetto giuridico) dispone di tre organismi per il suo funzionamento: l’assemblea (in via di principio tutti gli associati), il consiglio di amministrazione e il collegio dei revisori contabili. Diverso il discorso per i fondi pensione aperti e per le polizze individuali (Pip), ma in questo momento cerchiamo di concentrarci sul funzionamento dei fondi pensione negoziali, perché sono quelli che interessano più direttamente le lavoratrici e i lavoratori che saranno chiamati a scegliere sul loro Tfr e perché sono anche – tra tutte le forme di previdenza complementare – quelli finora più sicuri dal punto di vista della trasparenza, dei costi e delle prestazioni. Detto questo bisogna anche precisare – per dovere di completezza di informazione – che in Italia tutti i fondi pensione negoziali sono a contribuzione definita e non a prestazione definita. Siamo cioè sicuri di quello che versiamo, ma non possiamo essere certi di quello che avremo perché dipende dall’andamento dei mercati finanziari. È comunque calcolato che la previdenza complementare debba coprire una percentuale che oscilla tra il 15 e il 20 per cento della pensione. Se cioè la pensione pubblica sarà il 60 per cento dell’ultima retribuzione, la pensione integrativa dovrebbe assicurare quel 15-20% in più che porterebbe la pensione complessiva all’80 per cento dell’ultima retribuzione.


Da dove vengono i soldi del fondo?
La rendita futura dei lavoratori che aderiscono a un fondo pensione si costruisce negli anni attraverso la gestione finanziaria delle risorse accumulate. Queste risorse che poi devono essere valorizzate attraverso la gestione finanziaria hanno due fonti principali: i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro e il Tfr. Il contributo versato dal datore di lavoro viene in genere stabilito dagli accordi collettivi. Secondo le ultime norme varate dal governo alla fine del 2006, dal primo gennaio 2007, si può aderire alle forme pensionistiche complementari anche mediante il solo conferimento del Tfr futuro. Tale adesione non comporta l’obbligo di versamento di altri contributi, né da parte del lavoratore né del datore di lavoro. L’aderente può tuttavia decidere di versare ulteriori contributi, determinandone liberamente l’importo; in tal caso, se gli accordi o contratti collettivi lo prevedono, ha diritto al versamento dei contributi a carico del datore di lavoro. Il datore di lavoro può comunque decidere, pur in assenza di accordi collettivi, di versare un contributo a proprio carico alla forma pensionistica complementare alla quale il lavoratore abbia aderito. Nelle forme pensionistiche collettive, gli accordi e i contratti stabiliscono la misura minima della contribuzione (in cifra fissa o in percentuale della retribuzione) dei lavoratori e dei datori di lavoro.


In caso di riscatto

Dal primo gennaio 2007 si ha diritto a una pensione complementare dopo aver maturato i requisiti di accesso alla pensione obbligatoria pubblica e con una iscrizione di almeno cinque anni a una forma di previdenza complementare. Chi ha già il diritto di godere di una pensione integrativa può scegliere di percepirla solo come rendita, oppure di richiedere una parte in soldi (al massimo fino al 50% del capitale totale maturato). Molto delicato e molto interessante è il discorso che riguarda i casi in cui il rapporto di lavoro si dovesse interrompere e quindi si dovesse interrompere anche l’accumulo per la previdenza complementare. La norma prevede che il lavoratore che dovesse perdere i requisiti alla partecipazione alla forma di previdenza complementare, può trasferire la sua posizione ad altra forma pensionistica complementare legata alla nuova attività o mantenere la sua posizione individuale accantonata presso il fondo, anche in assenza di contribuzione. Il riscatto può essere richiesto anche in caso di richiesta di mobilità da parte del datore di lavoro o di cassa integrazione (è possibile riscattare fino al 50% della posizione maturata), in caso di disoccupazione tra i 12 e i 48 mesi e infine nei casi in cui la disoccupazione sia superiore ai 48 mesi o in caso di invalidità permanente. Tale facoltà non può essere esercitata nel quinquennio precedente il raggiungimento dei requisiti di accesso alle prestazioni, mentre sull’importo erogato al netto dei contributi già assoggettati ad imposta si applica una ritenuta a titolo di imposta del 15% ridotta dello 0,30% per ogni anno eccedente il quindicesimo, fino al limite di riduzione del 6%. In caso di cessazione del lavoro o di cassa integrazione tra i 12 e i 48 mesi, è possibile riscattare il 50% del capitale accumulato con una tassazione del 15%. Nel caso di invalidità permanente e inoccupazione superiore ai 48 mesi è possibile riscattare anche il 100% del capitale, sempre con la stessa imposizione fiscale. Nel caso in cui si perdano i requisiti di partecipazione (cessazione rapporto di lavoro), poiché lo prevedono espressamente gli statuti dei fondi pensione negoziali, è possibile il riscatto totale, ma con una imposizione fiscale del 23%.


Le anticipazioni? Come per il Tfr

Per quanto riguarda un altro dei punti delicati della riforma, le anticipazioni, le nuove regole prevedono che dal primo gennaio 2007 ogni iscritto a una forma di previdenza complementare può ottenere in qualsiasi momento l’anticipazione della sua posizione individuale (ovvero il capitale versato e gli eventuali rendimenti annessi) fino al 75% della stessa posizione individuale maturata. Ovviamente il lavoratore deve dimostrare di avere bisogno di quei soldi per serie ragioni di famiglia o sanitarie. Le anticipazioni si possono ottenere però solo dopo 8 anni di iscrizione al fondo e sempre fino al 75% della posizione maturata per i soldi devono essere destinati all’acquisto o alla ristrutturazione della casa per sé o per i figli e fino al 30% della posizione individuale per ulteriori esigenze dell’iscritto. Per un ammontare di anticipo fino al 75% della posizione maturata al momento della richiesta, sull’importo erogato al netto dei contributi già assoggettati ad imposta si applica una ritenuta a titolo di imposta del 15%, ridotta dello 0,30% per ogni anno eccedente il quindicesimo fino al limite di riduzione del 6%. Per un ammontare di anticipo fino al 30% della posizione individuale maturata al momento della richiesta, sull’importo erogato al netto dei contributi già assoggettati a imposta si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23%.

Le agevolazioni fiscali
I vantaggi fiscali di chi sceglierà i fondi pensione o di chi è già iscritto a una forma di previdenza complementare variano in funzione del reddito. La legge mentre non prevede deducibilità sul tfr, prevede la possibilità di una deduzione fiscale dal reddito Irpef dei contributi versati fino a un massimo di 5.164,67 euro all’anno. Nella deducibilità sono conteggiati anche i contributi a carico del datore di lavoro. Per quanto riguarda i rendimenti, ovvero la valorizzazione finanziaria del capitale versato, essi saranno sottoposti all’imposta sostitutiva dell’11%, che come si vede è un’aliquota più bassa rispetto a quella applicata sulle altre forme di investimento finanziario (12,50%). C’è anche da sottolineare un’altra differenza sostanziale tra la tassazione applicata al Tfr e quella prevista per le prestazioni pensionistiche complementari. Il Tfr è tassato con l’applicazione dell’aliquota media di tassazione del lavoratore e quindi essendo oggi l’aliquota Irpef più bassa pari al 23% per i redditi fino a 26 mila euro, l’aliquota applicata dal Tfr che rimarrà a disposizione del datore di lavoro non potrà essere inferiore al 23%. La parte imponibile delle prestazioni previdenziali sarà invece tassata al massimo fino al 15%, sui montanti delle prestazioni a partire dal gennaio 2007 (gli altri alla tassazione vigente al 2006) livello che potrà scendere – in determinate condizioni – fino al 6%. È sicuramente uno dei vantaggi più evidenti nella scelta del fondo pensione, anche se sul piano politico ha sollevato in passato polemiche sulla diversa imposizione fiscale applicata alla previdenza “privata” dei fondi pensione, rispetto a quella pubblica della pensione obbligatoria.


Rendita, rendimenti e costi

La legge istitutiva della previdenza complementare in generale prevede regole molto precise per la fruizione dei capitali accumulati per la previdenza integrativa. Una parte dei soldi accumulati negli anni si può riscattare al momento dell’uscita dal lavoro come capitale e una parte come rendita. Dal primo gennaio di quest’anno, come prevedono le regole, si ha diritto alla pensione complementare dopo aver maturato i requisiti di accesso alla pensione obbligatoria, con almeno cinque anni di iscrizione ad una forma di previdenza complementare. L’iscritto può scegliere di percepire la prestazione pensionistica: interamente in rendita, mediante l’erogazione della pensione complementare o parte in capitale (fino ad un massimo del 50% della posizione maturata). Nel caso in cui, convertendo in rendita almeno il 70% della posizione individuale maturata, l’importo della pensione complementare sia inferiore alla metà dell’assegno sociale Inps (attualmente pari a 381,72 euro mensili), l’iscritto può scegliere di ricevere l’intera prestazione in capitale. C’è infine da sottolineare che la previdenza complementare ha dei costi per la gestione amministrativa e finanziaria ci sono diversi tipi di previdenza complementare, come abbiamo visto sopra: i fondi pensione negoziali, i fondi aperti e le polizze individuali. Per quanto riguarda i costi di gestione e delle commissioni è ormai accertato che i fondi negoziali sono i più convenienti. I fondi aperti e soprattutto le polizze continuano ad avere i costi più alti senza assicurare d’altra parte i rendimenti migliori. Ma a questo punto viene dedicato un approfondimento a parte in questo speciale.

(www.rassegna.it, Rassegna Sindacale, 31 gennaio 2007)