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Il problema dello stato vegetativo permanente (SVP)

e il recente documento del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) sulle Dichiarazioni anticipate  di trattamento. 

Demetrio Neri Ordinario di Bioetica all’Università di Messina

 

 

Il compito che mi è stato affidato dagli organizzatori di questo convegno è quello di ragionare su come si rapporta  il documento del CNB sulle "Dichiarazioni anticipate di trattamento" e la questione che stiamo affrontando. Direi che il rapporto può essere visto sotto un duplice profilo. Il primo è di carattere generale, ma - credo - non irrilevante, mentre il secondo riguarda il tema della rinunciabilità all'idratazione e alimentazione artificiali.

 

Sotto il primo profilo, io vorrei subito sottolineare la novità più importante di questo documento: la richiesta al nostro legislatore di dare un sostegno giuridico alle dichiarazioni anticipate. Questa novità emerge meglio se, per un momento, ricordiamo quale era e come era costruita la precedente posizione del CNB in materia, consegnata al cap. III del documento su "Questioni bioetiche alla fine della vita umana" del 1995[1]. In quel documento il CNB esprimeva un sostanziale apprezzamento positivo delle direttive anticipate, iscrivendole molto correttamente "in un positivo processo di adeguamento della nostra concezione dell'atto medico ai principi di autonomia decisionale del paziente"[2].  Ma, al tempo stesso, il CNB constatava anche il carattere "deludente" e "insidiosamente lacunoso" del nostro ordinamento giuridico nei confronti dei principi di autonomia della persona nell'esercizio del diritto alla salute, che sembrava rendere assai difficile, per non dire impossibile, riconoscere un qualche valore a dichiarazioni anticipate: e non solo nel caso in cui a tali documenti si assegni un valore "ingiuntivo", ma anche nel caso in cui si assegni loro un valore solo orientativo. Infatti il CNB, anche in questo secondo caso e in ragione della lacunosità dell'ordinamento, consigliava ai medici " la massima cautela nella condotta medica da porre in essere di fronte ad un testamento di vita, in specie se questo, come per lo più accade, propenda per la desistenza nei confronti di uno o di ogni trattamento."[3] Abbiamo dunque, da un lato,  una pratica giudicata apprezzabile sul piano morale ed anzi tale da espandere e completare un processo giudicato altrettanto positivo e irrinunciabile, quello dell'adeguamento della concezione dell'atto medico al principio di autodeterminazione del paziente: dall'altro, abbiamo un  ordinamento giuridico incapace , a  causa delle sue lacune e del suo carattere insidioso, non solo di recepire quella pratica, ma persino di non scoraggiarla. La logica conclusione del ragionamento avrebbe dovuto consistere - così ragionai quando per la prima volta, già nel mandato del CNB presieduto da Giovanni Berlinguer, mi fu dato l'incarico di preparare un documento sulle direttive anticipate -  nel proporre un cambiamento dell'ordinamento giuridico vigente che lo rendesse meno lacunoso e insidioso. Eppure il CNB, nel 1995, non arrivava a questa logica conclusione. Si augurava, al termine del suo ragionamento, che la legge e i codici di deontologia potessero "aiutare a definire una prassi accettabile per le condizioni di incompetenza decisionale"[4], ma non riteneva di dover proporre una innovazione legislativa atta a fornire a questa prassi uno specifico fondamento giuridico, sia nel caso in cui  alle dichiarazioni anticipate dovesse essere assegnato un carattere vincolante, sia nel caso in cui se ne dovesse riconoscere solo il carattere orientativo.  Anzi, fu proprio questo uno dei due punti (l'altro riguardava i contenuti delle direttive anticipate) sui quali si arenò la discussione in quel primo gruppo di lavoro.

Oggi questa posizione è cambiata: il CNB chiede esplicitamente al legislatore di intervenire sulla materia, onde attuare le disposizioni contenute nella Dichiarazione di Oviedo, e voglio ripetere che questa posizione incontrava, ancora fino a pochissimi mesi fa, una fortissima resistenza all'interno del CNB, ma non solo all'interno del CNB. E' uno sviluppo che non va sottovalutato, anche sotto un aspetto generale: è evidente, infatti, che il riconoscimento giuridico delle dichiarazioni anticipate non può che riverberarsi positivamente sulla più generale questione del valore della volontà del paziente nei confronti dei trattamenti medici. Non c'è bisogno di sottolineare l'importanza di ciò a fronte di recenti e meno recenti avvenimenti, che hanno ancora una volta rivelato quanto ancora stenti a passare compiutamente nella pratica medica il principio del rispetto della volontà della persona consapevole, figuriamoci poi di una volontà espressa anticipatamente. Io mi auguro che questo documento del CNB favorisca una inversione di tendenza al riguardo, che crei le condizioni affinché non si ripetano eventi come quelli ai quali stiamo assistendo, per non parlare dell'incredibile violenza fisica e psicologica (che poi fu concausa della morte) alla quale è stato sottoposto qui a Milano alcuni anni fa un testimone di Geova: sedici persone c'erano nella stanza per costringere un uomo inerme a subire una gravissima violazione dei suoi diritti, incluso quello alla libertà religiosa[5]. E' vero che a posteriori autorevoli riviste giuridiche hanno stigmatizzato il comportamento dei medici e anche dei magistrati che hanno avallato quella violenza e poi hanno mandato assolti tutti, sfruttando peraltro i margini di incertezza o di lacunosità dell'ordinamento vigente. Ma il problema non è quello di rendere giustizia a posteriori (che peraltro in questo caso non è stata neppure resa): il problema è quello di prevenire il verificarsi di questi eventi e a questo scopo sarebbe utilissima una normativa organica sui diritti del cittadino malato e sui doveri del personale sanitario, come in altre nazioni anche europee è stato fatto. Ovviamente - e chiudo su questo punto - si può ritenere non soddisfacente la forma in cui il CNB suggerisce al legislatore di dare un fondamento giuridico alle dichiarazioni  anticipate. Ma il CNB esprime solo un parere, che spetta poi al legislatore decidere come tradurre in norma. A questo proposito, vorrei ricordare che l'art. 27 della Convenzione di Oviedo prevede  che gli Stati firmatari possano garantire alle disposizioni della Convenzione una tutela più intensa di quella prevista dalla Convenzione stessa. Se questo è vero, allora gli orientamenti nazionali potranno muoversi verso un rafforzamento, e mai verso un indebolimento, del rispetto dei desideri precedentemente espressi dal paziente.

 

Passo ora al secondo profilo, che riguarda più da vicino il nostro tema. Vorrei ricordare che il tema dello  Stato vegetativo permanente è stato affrontato dal CNB nel già citato documento del 1995, dove però - in relazione al "che fare" - il CNB non esprime una sua posizione. Si limita a ricordare le posizioni allora a favore della sospensione delle terapie atte a mantenere in vita il malato,  e tra queste anche l'idratazione e l'alimentazione artificiali, citando in proposito il parere dell'American  Medical  Association e, in Italia, quello della Società italiana di neurologia; e ovviamente, anche le posizioni contrarie alla sospensione, citando un documento dei vescovi cattolici statunitensi  e per l'Italia il parere del Centro di Bioetica dell'Università cattolica del Sacro Cuore. C'è stato poi un tentativo di riprendere il discorso nel settembre 2000, con un documento preparato da Michele Schiavone, che peraltro si intersecò con quello preparato dalla Commissione Oleari e le relative polemiche. Inoltre, il clima nel CNB era in quel periodo piuttosto teso, a causa del documento, poi approvato alla fine di ottobre, sulle Cellule staminali, cosicché il documento Schiavone, come pure quello sulle direttive anticipate, furono oggetto di una specie di aborto procurato. Questo nuovo documento sulle Dichiarazioni anticipate non menziona esplicitamente  il tema dello stato vegetativo permanente, ma si occupa dell'idratazione e alimentazione artificiali nel contesto del paragrafo dedicato ai contenuti delle dichiarazione  anticipate.

Conviene prima di tutto osservare che il principio che deve orientare la redazione delle dichiarazioni  anticipate è stato così formulato, all'unanimità, dal CNB: "ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale". E' sulla base di questo principio che vanno stabilite le esclusioni e le inclusioni :  e ognuno può giudicare quale tra le due posizioni riportate alla fine del § 6 sia più coerente con questo principio: se, cioè, quella che sostiene che rientra nella disponibilità del paziente dare disposizioni anticipate su qualsiasi tipo di trattamento o intervento su cui ha il diritto di esprimere la sua volontà attuale; oppure quella che limita il potere dispositivo del paziente solo ai trattamenti o interventi che integrino forme di accanimento terapeutico. Se vogliamo, qui è solo una questione di coerenza logica: se si accetta quel principio, allora non è più questione di accanimento terapeutico (posto che qualcuno sia in grado di definirlo in maniera univoca): qualunque intervento medico, proporzionato  o sproporzionato che sia, rientra nella disponibilità del paziente, nel senso che il paziente ha titolo per decidere, anche in forma anticipata, se accettarlo o meno.

Venendo ora  al tema specifico dell'idratazione  e alimentazione  artificiali, devo dire che sono rimasto sorpreso nel leggere sull'Osservatore Romano del 6 febbraio 2004 un commento di Giuseppe Dalla Torre il quale desume,  come cosa sicura e certa, l'estraneità alle dichiarazioni anticipate della richiesta di sospendere l'idratazione e l'alimentazione  artificiali. Non vedo proprio donde egli tragga questa conclusione: non certo dal testo, che sul punto contiene due posizioni, senza che peraltro sia possibile  dire - come pure è stato addirittura anticipato in un articolo sull'Avvenire del 29 novembre - che la posizione prevalente sia la seconda, quella che negherebbe in modo assoluto  la rinunciabilità di questi trattamenti in quanto  aventi sempre finalità eutanasica. Non è così e, di nuovo, anche questa è una questione di coerenza logica. Ho trovato infatti strano che questi commentatori abbiano sorvolato su una formulazione che compare nel testo della seconda posizione e che invece io ritengo importantissima e, comunque, da  non sottovalutare: quella in cui l'idratazione e l'alimentazione  artificiali vengono definiti atti eticamente e deontologicamente doverosi  "quando non risultino gravosi" per il paziente. Il punto richiede un breve chiarimento. Nelle discussioni svoltesi nel gruppo di lavoro fino a prima dell'estate dello scorso anno - durante l'estate il presidente ha, diciamo così, avocato a sé il documento e il gruppo non si è più riunito - venivano proposti due argomenti a favore della tesi della assoluta irrinunciabilità di questi trattamenti (anche nel caso del paziente competente). Il primo argomento è che non sono trattamenti medici e quindi non rientrano dell'ambito della dottrina del consenso informato e quindi, a maggior ragione, nella sua estensione tramite dichiarazioni anticipate. Per la verità, io mi sono sempre chiesto a quali mezzi potrebbe mai ricorrere un medico per costringere un paziente competente a subire questi trattamenti, posto che nel CMD, all'art. 51 (1998) si fa divieto ai medici di "assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale": ma lasciamo andare questo aspetto. In fondo si tratta di una questione tecnica e si può anche  mostrare a chi sostiene quella tesi che la tendenza sempre più prevalente in letteratura e nei documenti delle società scientifiche internazionali e nazionali è che si tratta di "trattamenti medici": da ultimo, si può vedere il documento della Società italiana nutrizione parenterale ed enterale pubblicato sulla Rivista della SINPE nel 2002. Tuttavia, alla base di quella tesi c'è un  secondo argomento, di natura etica, che può essere così sintetizzato: il  non iniziare o interrompere l'idratazione e l'alimentazione artificiali configura sempre un atto di eutanasia. Poiché tale argomento veniva avanzato da membri del CNB appartenenti all'area cattolica, ho cercato di documentarmi e anche a questo proposito ho potuto accertare l'esistenza, in letteratura e in documenti ufficiali, di un certo sviluppo di pensiero rispetto alla posizione espressa nella Dichiarazione sull'eutanasia della Sacra Congregazione per la dottrina della fede del 1980. Particolarmente importante mi è parso il § 120 della Carta degli operatori sanitari pubblicata nel 1994 dal Pontificio Consiglio della Pastorale per gli operatori sanitari. Il paragrafo dice: " L'alimentazione e l'idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all'ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia". Non saprei come interpretare questo passo se non nel senso che vi possono essere casi in cui questi trattamenti sono gravosi per il paziente e quindi, in questi casi, la loro sospensione non ha il significato di vera e propria eutanasia. In questi casi, invece, tali trattamenti rientrano tra quelli sproporzionati e dunque rinunciabili. Purtroppo non è stato possibile sviluppare in maniera adeguata questa linea di pensiero, ma nel testo del documento del CNB è rimasta traccia della discussione.  Ognuno poi è libero di desumere quello che vuole, magari rinunciando alla logica. Ma chi ha tirato un sospiro di sollievo sottolineando l'assenza di "finalità eutanasiche" non può sostenere che per il CNB la rinuncia all'idratazione e all'alimentazione artificiali rientra sempre in questa categoria e dunque non può mai essere prevista: non è certamente così per chi ha sostenuto la prima posizione e, cosa ancora più importante, non  è così neppure per quella parte del CNB che, pur intendendo limitare il potere dispositivo del paziente,  riconosce però che talora anche l'idratazione e l'alimentazione artificiale possono diventare gravosi e quindi sproporzionati. E' una breccia, ancora timida se si vuole, ma io credo che, forse, non sia da sottovalutare. Se poi il caso dello stato vegetativo permanente rientra tra quelli in cui tali trattamenti possono risultare gravosi è questione ulteriore e io mi auguro che nel CNB maturi l'idea di riprendere questo discorso dal punto in cui si interruppe. O almeno  spero che lo si possa fare: mi preoccupa infatti il riemergere, nel dibattito recente, di approcci centrati su una visione biologistica, direi anzi e paradossalmente, materialistica, di cosa è la vita umana, che  può essere utile soltanto a chi, nell'affrontare le questioni bioetiche, si accontenta  esclusivamente di "salvare i principi" restandogli così completamente esclusa la possibilità di comprendere la complessità e la tragicità  delle situazioni reali nelle quali abbiamo a che fare con questioni di vita e di morte. Ma qui il discorso si sposta sul piano delle controversie tra le visioni del mondo e dell'essere umano, che non può rientrare nei limiti di questa relazione.

 


 

[1] CNB, Questioni bioetiche alla fine della vita umana, Roma, 14 luglio 1995.

[2] Ivi, p. 37

[3] ivi, p. 39

[4] Ivi, p. 41

[5] Vedi gli interventi di A. Santosuosso e M. Barni su Bioetica, n.3, 2000.