Torna a Politiche/articoli


Una legge doverosa
di Chiara Saraceno

 

da La Stampa - 22 ottobre 2002


ALESSIO De Giorgi e Christian Panicucci non hanno contratto un matrimonio civile, ieri, presso l'Ambasciata francese a Roma. A differenza della coppia omosessuale che questa estate si è sposata civilmente in Olanda - l'unico paese, insieme alla Germania, in cui il matrimonio tra omosessuali è possibile - hanno stipulato un Patto civile di solidarietà (PACS).

Esso è stato introdotto da pochi anni in Francia, che conosceva già l'istituto giuridico del concubinato (una forma di unione civile riservata solo alle coppie eterosessuali), per consentire a tutte le coppie che non desiderano o non possono sposarsi di fornirsi reciprocamente, e in modo pubblicamente garantito, solidarietà e sostegno.

Esso pone meno vincoli e dà meno diritti del matrimonio, ma molto più che i contratti di natura privata cui spesso oggi ricorrono le coppie conviventi omosessuali e eterosessuali per regolare i propri rapporti.

Questi infatti non possono scalfire la priorità che la legge dà ai parenti rispetto ai «semplici» conviventi in caso non solo di eredità, ma di possibilità di subentrare nella casa comune, di aver diritto di partecipare a decisioni cruciali in caso di malattia grave, degli stessi diritti di visita in ospedale.

Così che un fratello o una sorella, o un cugino, hanno più diritti di un o una convivente a prescindere della qualità dei rapporti effettivi.

Confondere un PACS con un matrimonio non giova, per due motivi. Innanzitutto perché rafforza l'ostilità di tutti coloro che si oppongono a qualsiasi forma di riconoscimento delle coppie di fatto, omosessuali o eterosessuali che siano.

In secondo luogo perché questa equiparazione paradossalmente fa propria la pretesa di chi dice che solo la famiglia legalmente costituita è un ambito legittimo di affettività e solidarietà, meritevole di sostegno sociale.

Se è vero che vi sono coppie di omosessuali che vorrebbero sposarsi a tutti gli effetti, altre, come molte coppie eterosessuali, rifiutano il principio che solo il matrimonio possa fondare una solidarietà di coppia (ed una capacità genitoriale).

Tanto più in un'epoca in cui il matrimonio stesso è divenuto più instabile. Chiedono quindi che esistano più livelli di riconoscimento e una graduazione degli impegni che una coppia può liberamente assumere (salvo garantire una omogeneità degli impegni nei confronti dei figli). Soprattutto, rifiutano che sia lo stato a decidere quando un rapporto è serio e stabile.

Forse, più che continuare ad affannarci ad argomentare che non c'è un solo modo di fare famiglia, dovremmo chiedere l'applicazione dell'articolo 2 della Costituzione, là dove dice che «la Repubblica italiana riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». L'introduzione anche in Italia di un istituto come il PACS sarebbe un importante passo in questa direzione.


LE POLEMICHE SULL’UNIONE GAY DI ROMA
Una legge pericolosa
di Leonardo Zega

A chi giova, caro Vattimo, la confusione? «Oggi il primo matrimonio gay in Italia», dice l’occhiello del suo commento sulla Stampa di ieri. Ribadisce il titolo: «Finché legge non vi separi».

Nel testo si parla di una «singolare cerimonia nuziale», per approdare finalmente a una maggiore precisione di termini: «Due giovani, un italiano e un francese, stringono quel patto di solidarietà, che è conosciuto e largamente praticato in Francia sotto il nome di Pacs, ma che in Italia fa ancora scandalo».

Largamente? Non pare proprio: le statistiche danno meno dell’8% di tutte le unioni, con un significativo recupero nel 2002 di quelle tradizionali. Primo in Italia? Certamente no. Ma queste sono quisquilie. Merita invece più attenta considerazione la messa a punto della signora Françoise-Marie Babinet, consigliere stampa dell’ambasciata di Francia, dopo che il Corriere della Sera del 15 ottobre scorso aveva dato notizia del «primo matrimonio legale tra gay italiani, grazie alla Francia».

Queste precisazioni rinviano a una lettura e interpretazione del Pacs quale esso è e non quale si vorrebbe che fosse. Intanto l’acronimo non significa Patto di convivenza e solidarietà, come talvolta si traduce in Italia, ma Patto civile di solidarietà.

Parlare poi di «matrimonio legale» è fuorviante, essendo il Pacs un semplice contratto concluso fra due persone adulte, di sesso diverso o del medesimo sesso, per organizzare la loro vita comune. Definizione tratta pari pari dalla sua legge istitutiva (art. 515-1).

Tale contratto non può essere perciò presentato come un matrimonio fra omosessuali o un matrimonio tout-court: non è un atto di stato civile, non prevede la presenza di un ufficiale di stato civile, né (spiace per l’on. Vattimo) quella di testimoni, se non in veste di amici. Il Pacs si limita a creare diritti e obblighi per i due contraenti, a partire dal reciproco aiuto materiale e morale.

Le obiezioni a questo tipo di unione non vengono solo da parte cattolica. I vescovi francesi affermano, senza rigiri filosofici sulla «natura» o altro: «La nostra convinzione è semplice: il diritto offre già sufficienti possibilità per regolare i problemi sociali ed economici che incontrano certe persone che non possono o non vogliono sposarsi».

Per questo, concludono, «la nuova legge è inutile e pericolosa». Gli stessi concetti esprimono, sia pure con parole diverse, gli islamici di Francia, la comunità ebraica e la stessa federazione protestante. E dunque: fare un patto di mutuo sostegno è un conto, dire matrimonio e famiglia è un altro.

Si può discutere sulla opportunità del Pacs e sul rischio che finisca o meno per minare ulteriormente il quadro giuridico che garantisce la stabilità della famiglia naturale (un uomo, una donna, dei figli), riducendo il matrimonio a fatto privato, quasi non fosse la struttura portante della società di cui garantisce la continuità e la coerenza.

Ma è sicuramente improprio (e forse volutamente ambiguo) trasformare un accordo alla pari tra due persone dello stesso sesso in una sorta di unione coniugale, e la loro convivenza in una forma di famiglia. Chiamare le cose con il loro nome è un atto dovuto.