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Anziani e flessibilità
SE IL NONNO TORNA AL LAVORO
di PIETRO ICHINO
 

  dal Corriere - 9 dicembre 2004

 
Chi, come Jeremy Rifkin, parla di «fine del lavoro» esprime un’angoscia diffusa di fronte a un mercato del lavoro difficile, talvolta addirittura ostile ai lavoratori. Ma se intende dire che corriamo un rischio di esaurimento del lavoro da fare, si sbaglia di grosso: il bisogno di lavoro umano è sconfinato. Il problema è che la società ha bisogno di regolarlo; e le regole in certi casi hanno anche l’effetto di rendere più difficile l’incontro tra l’offerta e la domanda di questa «merce» particolare. Qualche esempio di quanto sia sconfinato il bisogno di lavoro. Pensiamo al bisogno di aumento delle conoscenze e quindi della ricerca. Ma anche al bisogno di diffusione dell’istruzione e dei servizi per colmare il deficit che affligge i meno fortunati; all’assistenza di cui avrebbero bisogno milioni di disabili o anziani non autosufficienti, i figli piccoli di genitori che lavorano; oppure al bisogno di informatizzazione della vita quotidiana con relativa assistenza alle persone incapaci di usare lo strumento informatico e la rete; oppure al bisogno di protezione della città dal vandalismo notturno (i graffiti!); e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Questa è tutta domanda di lavoro, che potrebbe emergere anche domani stesso; e non basterebbero a soddisfarla, anche se avessero le capacità necessarie, tutti i nostri disoccupati, i nostri cinquantenni e sessantenni prematuramente espulsi dal tessuto produttivo, i nostri settantenni pensionati ma ancora desiderosi di rendersi utili.
La prima obiezione è ovvia e immediata: quella domanda di lavoro potrebbe anche manifestarsi, ma soltanto se il lavoro costasse di meno e se il relativo contratto fosse meno impegnativo per l’azienda.
Per esempio, ci sarebbe, sì, una grande domanda di assistenza agli anziani, ma essa potrebbe esprimersi soltanto se il servizio costasse mille euro al mese; oggi, invece, se si rispettano gli standard collettivi e si calcolano ferie, tredicesima, malattia, accantonamenti, contributi previdenziali, il costo minimo non può scendere sotto i 2.000 euro al mese. Né i Comuni né le famiglie possono permettersi questa spesa. Così tanti disoccupati, anziani e disabili restano senza assistenza; e altrettante persone che potrebbero aiutarli, disponibili a farlo anche per mille euro secchi al mese, restano a casa propria.
Qui scatta la seconda obiezione, ovvia anch’essa e non meno fondata della prima: se eliminassimo gli standard minimi di trattamento, consentiremmo la concorrenza tra i lavoratori al ribasso, una grande guerra tra poveri.
È vero. In qualche caso, però, siamo tutti d’accordo (sindacati compresi) sull’opportunità di disapplicare gli standard generali. Per esempio, una legge consente che le università utilizzino i propri studenti, ciascuno entro un certo limite di ore annue, ovviamente senza alcuna garanzia di stabilità, pagandoli 8 euro all’ora senza contributi e persino senza imposizione fiscale: in questo modo gli atenei possono attivare una gran quantità di servizi aggiuntivi e gli studenti ingaggiati possono pagarsi i libri, le tasse di frequenza e anche qualche cosa di più, senza alcun danno per i lavoratori «regolari» del settore.
Forme analoghe di incontro «fuori standard» fra domanda e offerta potrebbero essere sperimentate anche in altri casi, quando ci sia consenso generale sulla non pericolosità sociale della deroga e si possa escludere che ne venga intaccata l’area del lavoro regolare. Così, per esempio, molti pensionati sessantenni potrebbero essere ingaggiati come co.co.co. da un ente locale (cui la legge ancora consente, senza alcuna formalità, questo tipo di contratto) e pagati 8 euro l’ora come fanno gli atenei con gli studenti, per trasmettere le proprie capacità, affinate in una vita di lavoro, a disoccupati in difficoltà, oppure per insegnare l’uso del computer e di Internet a persone anziane e disabili; altri potrebbero essere ingaggiati, in joint venture con le famiglie interessate, per assistere anziani in difficoltà. Le mamme di bimbi piccoli disposte a prendersi in casa durante la giornata uno o due altri bimbi consentirebbero di andare a lavorare in azienda a tante altre mamme che oggi non riescono a farlo: basterebbe che il Comune si facesse carico di un breve addestramento, una parte del sobrio corrispettivo, un minimo di controllo e un servizio di assistenza per le emergenze.
Lo stesso Comune potrebbe sperimentare pattuglie notturne di volonterosi pensionati per la protezione della città dai vandali e dai bruti. E se qualche rappresentante dei vigili urbani protesterà che in questo modo si invade un terreno di loro competenza, basterà chiedergli: ma quanti vigili urbani sono disponibili per i turni di notte, in giro per le strade della città?
Pietro Ichino