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OZ AMOS, UNA STORIA D'AMORE E DI TENEBRA,

FELTRINELLI, 2003, p. 513-515


Dopo un anno o due i ragazzi di sedici anni furono precettati anche loro per i turni di guardia notturna al kibbutz: nel corso di istruzione paramilitare avevamo imparato a usare le armi. Erano quelle le notti degli attentati dei feddayin e delle rappresaglie prima della campagna del Sinai, nel 1956. Quasi ogni notte dei terroristi assaltavano un villaggio o un kibbutz o una periferia di città, buttavano bombe contro le abitazioni, sparavano o tiravano granate dentro le finestre, seminavano mine ovunque.
Una volta ogni dieci giorni avevo il turno di guardia lungo la cinta del kibbutz, a circa cinque chilometri dalla linea del cessate il fuoco fra Israele e Giordania, nei pressi di Latrun. Ogni ora, e contrariamente agli ordini ricevuti, sgattaiolavo nella baracca di ritrovo vuota, per ascoltare il notiziario alla radio. La retorica dell'eroismo dalla parte giusta propria di una società sotto assedio dominava quelle trasmissioni, così come dettava la nostra educazione kibbutzistica: "Una ghirlanda intorno alla falce e alla spada". "Si levi un canto all'anonima gente." "I Monti di Efraim han preso/ una giovane vittima ancora. " "La spada nemica aspetta in agguato." Nessuno allora usava il termine "palestinesi": erano chiamati "terroristi" o "feddayin" o "il nemico" o "profughi arabi assetati di vendetta".
Una notte d'inverno mi capitò il turno di guardia insieme a Efraim Avneri. Scarpe alte ai piedi, addosso delle malconce uniformi da campo e dei berretti di lana che pungevano, scarpinavamo nel fango lungo la cinta dietro i magazzini e la stalla. Un acre odore di bucce d'arancia fermentate usate per preparare il silaggio si amalgamava agli altri odori di campagna, letame, paglia bagnata, vapore caldo dall'ovile, piume di pollaio. Domandai a Efraim se gli fosse mai capitato, vuoi nella guerra d'Indipendenza vuoi all'epoca dei violenti tumulti antiebraici negli anni trenta, di sparare e uccidere uno di quegli assassini.
Nell'oscurità non vedevo il suo volto, però colsi un'ombra di ironia sovversiva, una strana malinconia sarcastica che s'insinuònella sua voce mentre mi rispondeva, dopo un breve silenzio meditabondo:
"Assassini? Ma che ti aspetti da loro? Dal loro punto di vista, noi siamo extraterrestri giunti dallo spazio a sparpagliarci sulla loro terra, che pian piano abbiamo conquistato alcune sue parti, ma mentre assicuriamo loro che in realtà siamo venuti qui per coprirli d'ogni ben di Dio, per guarirli dalla tricofizìa e dal tracoma, per affrancarli dall'arretratezza e dall'ignoranza, dal giogo dell'oppressione feudale - con l'astuzia ci accaparriamo un appezzamento dopo l'altro del loro suolo. Dunque, che cosa vorresti? Che ci ringraziassero della nostra bontà d'animo? Che ci venissero incontro suonando le fanfare? Che ci porgessero rispettosamente le chiavi di tutto il paese perché i nostri avi un tempo vivevano qui? C'è forse da stupirsi se hanno imbracciato le armi contro di noi? E adesso che abbiamo inferto loro una sconfitta schiacciante - e centinaia di migliaia di loro da quel giorno vivono nei campi profughi - ti aspetti forse che condividano la nostra gioia e ci augurino ogni bene?".
Rimasi di stucco. Malgrado fossi già molto distaccato dalla retorica del movimento Herut, cioè della "libertà", propria della famiglia Klausner, non ero ancora altro che il conformistico prodotto della realtà sionista. Quelle parole notturne di Efraìm mi sconvolsero alquanto, e mi fecero pure arrabbiare: a quell'epoca un pensiero di questo tipo era etichettato come un tradimento ideologico. Tale era il mio stupore, tale lo sconcerto, che replicai a Efraim Avneri con una domanda provocatoria:
"Stando così le cose, perché mai sei qui a fare la ronda, armato? Perché non te ne vai dal paese? O prendi l'arma e passi a combattere dalla loro parte?".
Dentro il buio, sentii il suo sorriso triste:
"O dalla loro parte? Ma dalla loro parte mica mi vogliono. In nessun posto al mondo, mi vogliono. Nessuno mi vuole. La questione sta tutta qui. Ce n'è già troppa dappertutto, di gente come me. Solo per questo, mi trovo qui. Questa è l'unica ragione per la quale porto un'arma, perché non mi caccino pure di qui. Ma la parola 'assassini' non la userei mai per degli arabi che hanno perduto i loro villaggi. E comunque, non la uso con leggerezza a proposito di loro. Dei nazisti - lo dico senza esitazione. Di Stalin - pure. E di tutti coloro che espropriano terre altrui".
"Ne consegue che anche noi avremmo portato via delle terre non nostre? Ma scusa, non viviamo forse qui da duemila anni? Non siamo forse stati cacciati via dì qui con la forza?"
"Le cose stanno molto semplicemente," rispose Efraim, "così: se non qui - allora dove si trova la terra del popolo ebraico? Forse sotto il mare? Sulla luna? O forse il popolo ebraico, diversamente da tutti i popoli del mondo, non ha diritto a una seppure piccola patria?"
"E cosa avremmo dunque preso loro?"
"Dunque, forse hai dimenticato che loro, casualmente, hanno tentato di ucciderci tutti, nel '48? C'è stata, allora, nel '48, una guerra tremenda, e sono stati loro a porre la questione nei termini di o loro o noi , noi abbiamo vinto e quindi gliel' abbiamo presa. Non c'è nulla di che andare fieri! Ma se avessero vinto loro, nel '48, ci sarebbe ancor meno di che andar fieri: non un solo ebreo, avrebbero lasciato vivo. E in effetti in tutto il loro territorio oggi come oggi non vive un solo ebreo. Qui sta il punto: visto che Abbiamo preso quel che abbiamo preso, nel '48, ormai è fatta, l'abbiamo. Visto che adesso comunque abbiamo di che, è proibito prendere loro di più. Chiusa la faccenda. Qui sta tutta la differenza tra me e il tuo signor Begin: se un giorno o l'altro prendiamo altro da loro, ora che comunque abbiamo già qualcosa, quello sarebbe un peccato molto grave."
"E se fra un momento arrivassero qui i feddayn?"
"Se arrivassero," sospirò Efraim, "dunque noi dovremmo immediatamente distenderci per terra, nel fango, e sparare. Facendo del nostro meglio per sparare meglio e più lesti di loro. Ma non perché siano un popolo di assassini, dovremmo sparare, e invece per la semplice ragione che anche noi abbiamo il diritto di vivere e per la semplice ragione che anche noi abbiamo diritto di avere una terra. Non solo loro. E adesso per colpa tua mi sento già Ben Gurion. Scusami, ma vado un momento nella stalla a fumarmi una sigaretta tranquillo, tu intanto fa' bene la guardia. Per tutti e due."